Distrazione fatale

Mi stavo giusto annoiando.

Dopo l’imminente invasione dell’Ucraina, Totti e Ilary che si lasciano, e una scadenza di lavoro tra 6 giorni, stasera han pensato bene di rubarmi la borsa. Cosa che non mi accadeva da almeno una vita fa (e non è metaforico).

Esco dall’ufficio alle 18,15 dopo 9 piacevoli ore di orario extra, che faccio volentieri perchè sotto scadenza la mia unica priorità di vita diventa concludere il lavoro, a cui si sommano poche altre funzioni vitali essenziali (tipo mangiare, dormire, mandare whatsapp audio). 

Fresca come un’orchidea sfiorita, opto per una riposante camminata al parco lasciando tutto in macchina  fuorchè il telefono e le cuffiette (dovendo ascoltare i whatsapp audio). 

Cammino a criceto per il parco di Pinerolo, ripassando mentalmente la lista della spesa tra i runner che mi doppiano 56 volte e altri camminatori sparsi come la sottoscritta. 

Al mio ritorno ormai è quasi buio, apro il cofano per riprendermi il bagaglio e fiondarmi alla coop a comprare i broccoli, ma ci trovo: 1) le scarpe. 2) i regali di natale non ancora recapitati (!). 3) i bastoncini per la montagna. 4) due berrette 5) ombrello, borraccia, varie ed eventuali, blablabla.

Un caleidoscopio di oggetti, in cui scorgo di tutto tranne la borsa.

Il mio primo pensiero istintivo è: “l’avrò lasciata in ufficio”, ma ricordo molto bene il momento in cui l’ho depositata nel baule e mi sono guardata attorno furtivamente per accertarmi che non mi vedesse nessuno…  Evidentemente il mio accertamento non è stato abbastanza accurato, ma non mi soffermo sulla mia furbizia da Pantera Rosa, né mi lascio andare a imprecazioni di sorta.

Anzi.

Mi guardo intorno, con uno stato d’animo inequivocabile: STUPEFATTA.

Ho ancora un telefono, due cuffiette, i fazzoletti di carta, un burro cacao e le chiavi di casa. Oltre ovviamente alle chiavi dell’automobile e (cosa nient’affatto trascurabile) un’automobile.

Mi sento sommariamente invulnerabile, e con una lucidità da serial killer faccio una cosa. La prima. 

Non chiamo mia madre, né mio padre, né Danilo, né AIUTO.

Mando un messaggio. Alla mia collega.

“Ciao. Mi hanno rubato la borsa. Dentro c’erano le chiavi dell’ufficio, devo fare qualcos’altro oltre alla denuncia?”.

La mia prima azione concreta di autoconservazione da un furto è mossa a salvaguardia dell’ufficio…la roccaforte dei miei ultimi 4 mesi, il luogo dove ho passato più tempo in assoluto di quello che ho  avuto a disposizione da sveglia, le cui chiavi sono attualmente in mani nemiche e ciò mi angoscia più dei miei stessi soldi e documenti che non ho più. 

Ecco. Quando realizzo di non avere più documenti, metto in moto la macchina per andare dai carabinieri.

Quando metto in moto la macchina, realizzo di non avere più la patente.

E neanche un soldo per comprare i broccoli.

Vado al Comando a risolvere almeno parte della faccenda. Entro in stazione alle 19,35 e siccome ho una persona davanti, per ingannare l’attesa faccio il numero verde di Poste Italiane per bloccare la mia carta bancomat.

Mi risponde l’Intelligenza Artificiale, che mi sciorina a raffica tutta una serie di carte tra cui dovrei scegliere e comunicarle verbalmente quale deve bloccare.  Ci sono tutte: carta di credito, carta poste pay, carta oro, carta carbone, carta igienica, forse anche Marco Carta, l’unica che l’Avatar non mi propone è una comunissima CARTA BANCOMAT.

Provo a pronunciarglielo, nella sua pausa di attesa, ma mi risponde che non ha capito, e di formulare la mia esigenza cambiando frase. 

“BLOCCA-CARTA-BANCOMAT” scandisco, a voce alta, nell’atrio dei Carabinieri, ad un disco che non mi capisce. Mi sento in un universo parallelo, forse sto lavorando troppo. 

Devo riattaccare con l’Intelligenza Artificiale sordo-ottusa di poste italiane e parlare con un uomo vero e in uniforme che mi ha chiamata con un cenno al di là del vetro.

“Dovrei fare denuncia per il furto di una borsa”, spiego da dietro una mascherina, all’alba della mia dodicesima ora fuori casa.

“Ehhhh… torni domani. Alle otto chiudiamo e di là c’è un’altra persona”.

Torno domani?

“Ma domani devo lavorare, sono le otto meno dieci, posso aspettare”.

“Nooo, torni domani che adesso non possiamo. Lei dove abita?”, mi incalza, privo di reale interesse.

“A Orbassano, ma non sono residente. Non c’è un altro comando?”. chiedo, sempre più stupefatta e incredula che l’omino con la divisa non mi aiuti a levarmi le castagne dal fuoco.

“Qui no. Ma in ogni caso, provi a Orbassano. Se lei è residente lì la denuncia la deve fare lì”.

Punto. E chiude la frase lasciando intendere che non sta bene presentarsi all’ora dell’amatriciana, che lui ha lavorato tutto il giorno come me e invitandomi ad andare a Orbassano, dove peraltro gli avevo appena detto che NON risiedo, a un comando che COME LORO chiude alle 20, e per di più SENZA PATENTE.

Dopo questa clamorosa istigazione al reato, me ne vado. Non prima di averlo guardato. Una lunga, silenziosa occhiata, più feroce di un insulto, in cui affiora nell’iride un fatale e irreversibile disprezzo.

Con una inebriante sensazione di clandestinità, inforco la macchina, mio bene più prezioso e ahimè violato per la seconda volta.

Violato? Ma siamo sicuri? Eppure i nottolini sembrano a posto. Mi si insinua il dubbio di averla lasciata aperta, ma come han fatto non ha importanza. Con le mani, con le mani, con le mani, ciao ciao.

Io ho un telefonino e una vettura, e sono già sufficiente ricca.

Rifaccio il numero di Poste Italiane, dribbo i vari “digiti 1” e “digiti 9”, e quando l’ Intelligenza Artificiale fa la sua pausa di riflessione per permettermi di parlare, dico a voce alta: VOGLIO PARLARE CON UN OPERATORE!”.

Silenzio.

Riparte: “Mi dispiace non aver potuto esserti di aiuto”, il tono è gentile ma risentito. “Ti passo subito un mio collega umano”.

Dopo essere riuscita a mortificare una voce registrata e liquidato le mie priorità con un collega Homo Sapiens, riparto. Con tutta calma, guidando in autostrada a fari spenti nella notte senza patente, chiamo Danilo. 

Scopro che è andato a fare la spesa (ah, meno male), ha messo le patate a bollire (ottimo), è sceso a fare 4 passi (perfetto) e ha lasciato che le patate finissero di cuocere. 

Eeeeeeeeeeeeehhhhhhhhhh?????

Ma perché il gas acceso? E soprattutto perché le patate, che riesce a farle bruciare anche quando è in cucina, figuriamoci se è sceso a correre?? Stasera ho subito il furto della mia borsa, rimanere anche senza casa mi complicherebbe oltremodo. 

Mi risponde che stavolta ha messo molta più acqua, e giura di aver lasciato la fiamma al minimo. 

Forti di questa solida rassicurazione, ci salutiamo. Sono a None, 15 minuti di viaggio ancora mi separano dal purè e dal potermi accertare di avere ancora un tetto dove dormire.

L’alternativa è solo accamparmi per terra in ufficio, dopotutto se mi avessero rubato la macchina sarebbe stata l’unica possibilità plausibile per ultimare il lavoro entro questa benedetta scadenza tra 6 giorni.

L’unico reale problema che mi balena in testa in questo istante è se facessi un incidente, ora, in autostrada. In tal caso, senza documenti, senza prove circa la mia identità e con l’urgenza di rientrare a casa prima che i vicini chiamino i vigili del fuoco, potrei solo darmi alla fuga per i campi.

Tanto, dopo le 20, le prigioni sono chiuse.

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Olio su cotto – il ritorno

Ed eccomi di ritorno nella mia ridente Porta Palazzo che mi fa sentire a casa anche senza esserlo più, stavolta per andare all’ospedale a fare un esame chiamato poligrafia del sonno.

A quanto pare, russo. Non come un facocero con la sinusite, probabilmente non ne ho la stazza, ma quel tanto che basta, stando ai resoconti forniti, ad aver insospettito il mio medico di apnee notturne. Sindrome pericolosa e nel caso da monitorare e correggere.

Mi avevano detto di prepararmi all’esame vestendomi comoda, quello che non sapevo è che mi avrebbero montato addosso un marchingegno che misurerá diversi parametri (a me ignoti) da non togliere per nessun motivo prima dell’indomani mattina. Torni a casa, tanti saluti, buon riposo e ci rivediamo domani per la riconsegna.

La dottoressa che me lo fa indossare non mi lascia molte spiegazioni a riguardo, se non l’ordine perentorio di non toccare nessun pulsante, nessun tubicino, badare al saturimetro sulla mano sinistra e scrivere qualche dato prima di andare a dormire.

Lascio l’ospedale alle dieci e mezza del mattino con questa specie di ingombrante walkie talkie allacciato al petto, con una luce rossa intermittente che al buio sento che non lascerà presagire nulla di buono.

Cammino velocemente fino al parcheggio chiudendomi il golf per non dare troppo nell’occhio. Mi sento un kamikaze.

Mi fermo al solito semaforo di corso Belgio dove il mio solito amico marocchino fornitore ufficiale di spugne si avvicina per scambiare due parole. Butta un occhio al mio dito sinistro sigillato con nastro e tubicini vari.

“Ti sei fatta male?”

“No, figurati” rispondo.

Abbassa gli occhi su questa specie di cintura al tritolo che mi avvolge il torace. Mi guarda e propone una confezione di fazzoletti… Per fortuna scatta il verde e posso ripartire, sperando che il mio amico musulmano non mi segnali alla Digos ma ritengo che 5 euro per tre spugne siano bastati a comprare il suo silenzio.

La giornata prosegue in fretta, faccio poche cose e attendo la sera per cucinarmi qualcosa. Non sono abilissima con una mano sola, temo di staccare qualcosa da questa macchinetta, ogni tanto mi chiedo se sia accesa, spenta, rileggo le istruzioni per vedere se devo accendere qualcosa o dormire in un certo modo.

Armeggio come al solito, faccio troppe cose assieme e all’improvviso accade l’imprevisto.

Il peggior imprevedibile imprevisto che si possa lontanamente prevedere in una cucina.

Ossia mi cade per terra la bottiglia dell’olio.

Bottiglia.

Olio.

Vetro.

In frantumi.

Resto immobile osservando quello che è successo.

Immobile. Basita. Muta.

“First reaction shock” (cit. M. Renzi).

Quando realizzo che ho i piedi in pinzimonio nella pozza, mi muovo sfilando i piedi dalle ciabatte e balzando nella piastrella sana più vicina come a scacchi.

Peccato che le mie ciabatte siano di quelle bianche in spugna alte 0,5 nanometri, perciò di fatto mi si sono bruschettati anche i calzini. Resto scalza, getto tutto in lavanderia, torno in cucina e osservo, ancora.

Ho sparpagliato sul pavimento un litro e mezzo del migliore olio calabrese in circolazione, pavimento IN COTTO per la precisione, che sta ciucciando come un neonato ogni secondo in più che passa, ho una teleferica attaccata al corpo e a una mano che mi impedisce di lavarmi fino a domattina e non so quale di tutte queste sia la cosa peggiore.

Un po’ per istinto di sopravvivenza e un po’ per regressione infantile, chiamo mia madre. L’unica che in questo momento possa salvarmi dall’assurdità della situazione in cui mi trovo.

Dopo poco arriva, già munita di rotolone di carta e paletta, constata il danno e inizia a pronunciare una lista di frasi totalmente inutili allo scopo. Tipo:

1)      a me non è mai successo;

2)      hai la cucina disordinata, per forza che ti cadono le cose;

3)      però, che buon profumo, quest’olio.

Dopodichè, finalmente il Sergente Maggiore Capo prende il sopravvento sulla Signorina Rottermaier e si mette subito all’opera.

Io continuo a guardarla, le passo le cose, una bacinella, scottex, teli, sgrassatore, una paletta. Ma mi rendo utile proponendole la MIA paletta, decisamente più all’avanguardia della sua, dotata di gommino finale che oltre ad agevolare la raccolta delle briciole, si rileva assai efficace nel direzionamento dell’olio sul pavimento, tipo spazzaneve sulla pista di Maranello.

Facciamo squadra, mi infonde coraggio mentre io avrei saputo fare una cosa sola: svenire.

Da quando sono in questa casa, gli incidenti domestici si sono susseguiti senza lasciarmi tregua.

La sfiga, il fatto che sono al pianterreno, chi lo sa.

Un mese dopo il trasloco, nel 2018, è esploso l’addolcitore. Casa allagata.

Poco dopo, è esploso il boiler. Casa allagata 2.

Poi, fu la volta della lavatrice. Casa insaponata 3.

Pentola a pressione, dalla valvola esce improvvisamente una parte della mia zuppa di legumi. Casa inzuppata 4.

La più recente, la scorsa estate. Lavandino della cucina otturato, dove non solo non va giù la mia acqua, bensì mi ritrovo un simpatico effetto di “ritorno” dell’acqua che avrebbe dovuto defluire. Risultato: rientro a casa un paio di volte con queste acque putride esondate dal lavandino e ben distribuite tra cassetti, sottocucina e pavimento.

Poi vabbè, ho bruciato pentolini, affumicato la casa ma quello è un vizio genetico di famiglia e comunque li ritengo incidenti “di routine”.

Quella di stasera, è di gran lunga la peggiore, e se già mi era bastata l’esperienza con le acque putride in retromarcia dallo scarico (già assai unte di loro), con l’olio abbiamo raggiunto l’apice del condimento supremo.

Lascio andare mia mamma, ringraziandola. Per stasera passo solo un mocio veloce e poi non ne voglio più sapere fino a domani.

Alle 22,30 mi si accende quest’antenna e devo già essere nel letto, in pieno rilassamento e in attesa della nanna, spero dentro di me di russare tantissimo per non vanificare questo sacrificio domestico con un esame inutile.

A ben pensarci, era meglio esplodere.

[Buttigliera, 24 febbraio 2021]

Duemila eventi

Ciao anno strano.

Stai per salutarci, noi tutti affollati dietro le transenne, chi a sputare, chi a fare “buuuuu”, chi “scemo scemo” mentre tu passi in mezzo a tutti gli insulti a testa alta come un condannato che sa di non aver commesso nessun reato. Io ti guardo sfilare, lungo la strada che conduce agli eventi del passato mentre noi rimaniamo a vivere il presente e a sognare il futuro. I tuoi effetti ci accompagneranno ancora, anche se tu non ci sarai più.

Sei stato potente come uno tsunami, devastante come un terremoto e flagellante come una tempesta estiva torinese (che sono peggio di quelle tropicali, ultimamente).

E noi, come al solito, non avevamo neanche l’ombrello.

A te non frega nulla, hai semplicemente compiuto il tuo dovere e hai pure quel sorrisetto beffardo di chi sa di aver piantato casino in mezzo a gente che se lo meritava. Perché alla fine, diciamocelo, oltre tutte le retoriche dei numeri, dei decessi e dei DPCM, globalmente parlando ce lo meritavamo. Ti abbiamo meritato come un regalo nel giorno del compleanno o come un mazzo di fiori alla laurea, solo che il regalo era un pacco (vuoto), e i fiori erano carnivori.

Comunque, dì un po’. Hai già fatto il passaggio di consegne con il 2021? Vi siete visti? Cosa gli hai detto? Perchè noi ci terremmo a fare un po’ bella figura col 2021. Mi auguro che tu non ci abbia sputtanato oltre misura.

Devi sapere che non siamo proprio gente che si prende la merda in pieno volto e se la tiene lì a far finta di essere inciampata di faccia su una Sacher. Di solito ci ripuliamo e proviamo a ricominciare, sperando che ricominciare dopo un 2020 non ci ricapiti per un po’. Per il 2021 ci stiamo abbastanza tirando a lustro, abbiamo arieggiato la casa, passato l’aspirapolvere, tirato fuori il vestito quello del matrimonio a cui non siamo andati perché c’era il covid. E ci siamo accorti miseramente che non ci va più bene perché abbiamo esagerato con la pizza ai 4 formaggi fatta in casa.

Siamo stati bravi. Gliel’hai detto al 2021? O l’hai solo guardato con aria compassionevole dicendogli “…auguri” come se si trovasse a che fare con dei mentecatti? Tutti i programmi andati in fumo, matrimoni saltati “perche c’era il Covid”, il nostro tempo libero quintuplicato nel giro di un colpo di tosse, ci siamo arrampicati sui muri pur di fare attività fisica, abbiamo lavorato da casa con tutto il resto della famiglia, animali domestici compresi, abbiamo imparato a fare la torta pasqualina mentre tu ti davi da fare a distribuire la pandemia in tutto l’occidente come zucchero a velo sui biscotti. E questo soltanto nella migliore delle ipotesi, ossia a coloro ai quali è andata benissimo.

Non mi sto lamentando, ti sto solo chiedendo di essere un po’ più magnanimo e obiettivo nei nostri confronti, anche perché qualche richiesta al 2021 da fare ce l’avremmo. Potenzialmente potresti aver decretato l’inizio della nostra estinzione e allora ci spetta di diritto un ultimo desiderio.

Io rivoglio duemila eventi. Duemila Eventi. Quelli che sono stati spazzati via dal virus “urbi et orbi”.

Rivoglio il teatro, quello dei piccoli circuiti dove la sala è talmente piccola che quando l’attore si infervora in una scena forte, ti benedice di saliva come il prete con l’acquasanta.

Rivoglio i concerti. Negli stadi, nelle piazze, negli auditorium e nei club. Quelli dove davanti a me c’è sempre il fratello di Caparezza futura promessa del basket italiano, tanto che i miei ricordi di come sia fatto un palcoscenico hanno i contorni sfumati di un qualcosa in lontananza tra un ricciolo e una doppia punta.

Rivoglio il cinema, e quel momento di sospensione durante i titoli di coda, a far galleggiare nei pensieri la parola giusta per quel finale o per l’intero film, generalmente ascrivibile a una rosa di 5 o 6  parolacce dove solitamente troneggiano: “minchia” che corrisponde a finale imprevedibile, “azz” = storia emotivamente impegnativa, “che cagata” se non ho né riso né pianto né dormito.

Rivoglio il caffè del mercoledì al bar con un’amica, dove la colazione diventa un pranzo, il pranzo uno shopping, e arrivo a sera senza aver combinato niente ma la giornata mi è valsa una seduta di psicoterapia gratis e un paio di stivali nuovi.

Rivoglio i pranzi e le cene con le tavolate, dove “ognuno porta qualcosa” e “i piatti li laviamo domani”, i  “chi prende la fetta della vergogna?” e i “basta, sto rotolando”.

Rivoglio le ciaspolate in montagna e i rifugi d’inverno. Le alzatacce quando è ancora notte, il naso che mi cola, i geloni alle mani. Il bianco che mi abbaglia e i compagni di salita che tornano a chiedere “qualcuno vuole un po’ di thè caldo?”

Rivoglio i funerali dove posso abbracciare e stringere le mani ai familiari dei defunti senza che temano di morire a loro volta.

Rivoglio le gare di Karate di mio nipote e i video delle recite a cui non sono mai andata.

Rivoglio le sagre. Il carnevale. Gli stage di danza. Le fiere.

Rivoglio i viaggi.

Devo continuare?

Mi sembra già di chiedere troppo, eppure era semplicemente tutto ciò che avevamo fino a un anno fa. Ho iniziato col faceto ma si torna inevitabilmente seri, l’anno passato ci ha dato una botta di seriosità, tanto che, in fin dei conti, la cosa che più di tutte rivoglio indietro è l’umorismo, e il poter parlare liberamente per iscritto di cretinaggini quotidiane che mi accadono, senza temere di violare gli articoli di qualche DPCM in vigore.

Ho chiesto al 2020 se avesse qualcosa da dichiarare prima di salutarci e mi ha risposto così.

Tutti insieme separatamente

Ed eccoci qui, tutti insieme separatamente, ad attendere con pazienza che il coach della nostra nazionale ci dia il via libera per ri-abbracciarci.
E’ incredibile come il popolo italiano possa radunarsi sotto un unico tricolore in nome di una partita. Che sia contro il Brasile di Roberto Carlos o contro il Virus dell’Hubei non fa differenza. Più la sfida si fa impegnativa, e più ci piace fare i duri e giocare, inclusi i duri di comprendonio.
Con tutta la creatività di cui siamo capaci, sopportiamo e sottostiamo alle nuove regole con un tale coinvolgimento collettivo che se domani Conte firmasse un decreto intimando a tutti di pagare le tasse perchè “è per il bene del Paesse” (certe parole le pronuncia come Bergoglio), probabilmente in un moto di patriottismo risaneremmo anche i conti pubblici, oltre a piastrellare i padiglioni di Milano Fiere con 600 unità di terapia intensiva.
Agli sgoccioli di questa prima settimana di isolamento in cui prima doveva restarci solo qualcuno, poi tutti, poi tutti un po’ più a casa, poi ancora di più in casa, in un’escalation orgasmica di divieti, posso constatare quanto il nostro Presidente-chioccia conosca bene il suo pollame.
Prendiamo Caluso, ad esempio. Oggi tutte le serrande erano “serrate”, con tanto di biglietti esposti che finiscono tutti col gettonatissimo #iorestoacasa.
Forse voi non sapete quanto erano incazzati questi qui, due settimane fa, quando gli hanno annullato il carnevale di Ivrea. Una tragedia mai più finita, un lutto senza consolazione. Tu pensa se gli chiudevi pure la serranda sugli alluci, così, senza neanche presentargli Burioni…sarebbe equivalso a sparare sulla croce rossa e avrebbero invocato l’insurrezione popolare.
Bisognava arrivare ad avere gli ospedali stracolmi, qualche compaesano Covid19-positivo e la foto di un’infermiera accasciata su una tastiera, per ricordare a qualcuno le priorità della vita.
A qualcun altro invece, serve tutt’ora una causa migliore a cui immolare il proprio mancato introito o la propria interruzione lavorativa (non necessariamente le due cose coincidono).
Uno di questi è il mio capo, il quale non si spiega una tale baraonda economica per un microbo che neanche si vede.
Non saprei, dico io.
Preferisci un asteroide?
L’invasione della Polonia da parte della Regina Elisabetta?
Comunque, lavorare nel bel mezzo di un’emergenza sanitaria al momento non mi dà particolari sensazioni, se non l’impressione di essere in ufficio nel giorno di Natale, quando tutti sono per l’appunto a casa con le rispettive famiglie a odiarsi reciprocamente.
Tantovale condividere ancora l’ossigeno con l’entourage lavorativo, sopportando il pacchetto completo compagnia+minchiate: quelle che dice il mio capo sbeffeggiandosi del pericolo, rivendicando un imprecisato diritto al lavoro e lagnandosi come un adolescente al quale è stato vietato lo Spritz delle 19.
Comunque il mio ufficio è lo specchio antropologico della società poichè per una bizzarra combinazione, ciascuno di noi 4 cristiani ha un atteggiamento ben preciso nei confronti dell’emergenza, che è diverso da quello di tutti gli altri.
Infatti troviamo:

– IL NEGAZIONISTA (il capo), di cui ho già relazionato poc’anzi. Si meraviglia per i clienti che danno buca agli appuntamenti, starnutisce fuori dal gomito e si lava le mani appena entra in ufficio per il solo fatto che era un’abitudine già consolidata prima dell’emergenza Colonnavirus (per la cui etimologia si rimanda al post precedente). Vìola continuamente le norme anti-assembramento, specie pronunciando la più lunga lista di cazzate che mai orecchio umano udì prima, durante e dopo una pandemia.

– L’IMMUNODEPRESSA (collega 1). Mantiene rigorose distanze da tutti, disegnando una circonferenza virtuale intorno a sè secondo la formula: raggio x raggio x 3,14 = stammilontanodiosanto. Tentando senza successo di far capire al capo la differenza tra una persona mediamente in salute e una mediamente in pericolo di vita, ottiene in tutta risposta una lezione di scienze sulla selezione naturale. I rapporti tra i due sono distesi, o meglio bis-tesi, come una corda di violoncello lunga ben oltre il metro.

– L’ANSIOSA (collega 2). Dirimpettaia di scrivania dell’immunodepressa, di cui condivide la linea di pensiero, si ritrova spesso tra i due precedenti soggetti a spargere talvolta acqua sul fuoco, talaltra amuchina sul mouse. Assidua frequentatrice di palestre e altri luoghi deputati al tempo libero, ha sospeso ogni attività fin dal lontano 23 febbraio quando il Colonnavirus aveva conquistato a malapena la cittadinanza onoraria di Codogno e Salvini sbandierava lo slogan “riapriamo la cultura” senza sapere di cosa parlasse.

– LA ZEN (me medesima). Si gongola millantando una improbabile immunità al virus per il solo fatto di aver assunto già da gennaio un immunostimolante a base di Echinacea e Sambuco. Si districa nella matassa di opinioni mantenendo il giusto distacco da qualunque estremismo e un sano equilibrio rispetto alla gestione dell’emotività, sua e altrui. Prende la faccenda ora sul serio, ora sul faceto, condensando la propria opinione personale sotto un patriottico “tutto andrà bene”. Probabilmente, è il paziente Zero.

Nota 1: l’immagine è un irritante promemoria ad opera di mia sorella.

Nota 2: ogni riferimento a cose e persone in questo post é da intendersi in chiave umoristica

Altolà al Colonnavirus

Prova … Prova … SA SA
Okay, benissimo, il blog è funzionante.
Non si è autodistrutto a un anno esatto dall’ultima pubblicazione, risalente all’8 marzo 2019 in cui sproloquiavo su quegli uomini che non hanno una festa internazionale a loro dedicata ma se la meriterebbero, perciò possiamo festeggiare insieme (io e il blog, intendo). Un anno di silenzio stampa, evvivaaaaaaaaaaa!!!! spegniamo le candeline, viva viva.
Per fortuna è arrivata un’emergenza interazionale a spazzare via la sindrome da boreout che stava attanagliando la mia vita, dunque ora posso tornare a occuparmi di cose serie cazzeggiandoci sopra.
Siccome stamattina mi sono svegliata e ho scoperto che casa mia, oltre a essere la mia copertina di Linus, ricade all’interno di un tenero cuscinetto sanitario di contenimento del Covid-19 (che mio nipote ha ribattezzato Colonnavirus), in pratica da oggi fino al 3 aprile funziona che: io rimango di qui da sola e in mobilità ridotta a fare l’altolà al Colonnavirus, gli altri possono rimanere tutti insieme a fare le merende sinoire bevendo Negroni in fila per sei col resto di due purchè a un metro di distanza.
Perché finchè non vengono da te a dirti “ehi, tu, proprio tu. Si. Da domani esci solo per andare a lavorare”, tu li guardi come Fantozzi guarda il mega direttore galattico e rispondi “c-chi? Io?” e loro ti rispondono “A-ha, sì, tu” zavorrandoti del fatto che dal tuo senso di responsabilità sul rispetto delle regole derivi la sopravvivenza della specie.
E tu hai un bel leggere e informarti ma dopo un po’ finisce che smetti di leggere le cose vietate e inizi a fare la conta di chi ti rimane intorno, perché in fondo non è la quantità di cose che fai, a fare la differenza, ma con chi le fai.
E quindi passo velocemente in rassegna i nomi delle persone con cui mi è permesso relazionarmi da oggi fino al 3 aprile, considerando divieti, restrizioni, errori ed omissioni:
– io (contiamoli tutti, che può tornare utile);
– il mio capo;
– due colleghe di lavoro;
– 3 familiari stretti.
Fine.
6 persone e una personalità con cui fare i conti sperando di non litigarci troppo.
Secondo me sono già tante, poteva andarmi peggio. Però porcalamuccalavaccamiseriaccia poteva anche andarmi meglio. Poteva andare che avevo qualche amico in provincia di Asti con cui andare a fare una passeggiata e invece no, siete tutti dall’altra parte della barricata.
Potevo avere una vicina di casa NON ipocondriaca (mia sorella) che evitasse di chiedermi ogni volta che mi vede se mi sono lavata le mani facendomi desiderare il regime 41-bis.
Potevo essere sposata o convivere e godermi almeno il lato romantico dell’isolamento giocando a io Tarzan tu Jane.
E invece no, mi dovrò accontentare di ciò che passa il convento, qui in mezzo alle colline, nella Terra dei Santi. Che non è poco, sappiatelo, rispetto alla Torino in pieno deserto culturale e musicale in cui sono rimaste aperte soltanto le piole.
Noi no. Qui nella zona arancione (o rossa o fucsia, quale che sia), abbiamo persino la musica dal vivo, se vogliamo.
Basta andare a messa.

Uomini che onorano le donne

A te che una donna la sogni a occhi aperti.
A te che hai reso il femminile immortale con un dipinto, una canzone, un verso di poesia.
A te che la immagini in silenzio, e ti vergogni perchè sei nato timido.
A te che la stupisci con un mazzo di fiori in un giorno qualunque
Che speri di aver azzeccato il colore delle rose
Che cucini tutte le sere perchè lo fai meglio di lei
A te che la incoraggi a uscire
a distrarsi
a non mollare
A te che la fai ridere quando è di cattivo umore
A te che hai capito come lasciarla stare senza lasciarla sola
Che hai imparato dalle donne che dopodomani è un altro giorno
A te che sei fragile in una società che ti pretende forte
A te che sei forte in un mondo di donne che cercano uomini sensibili
A te che sei precario in un mondo di donne che cerca uomini stabili
A te che sei ricco in un mondo di donne superficiali
A te che l’amore ti ha cambiato
A te che l’amore ti ha devastato
A te che l’hai vista andare via senza voltarsi indietro
E sei rimasto un uomo, un Uomo.
L’hai protetta dalla parte peggiore di te
E del mondo.
A te che non sai come consolarti dalla Vita se non tra le braccia di una donna
Qualunque
Sognando di poter crescere un giorno tra quelle di una
Soltanto
A te che l’amore è una fiamma lenta anche a 16 anni
E lo senti dentro nonostante tutto appaia da bruciare, comprare e consumare
A te che sei ancora un bambino a 70 anni, in confronto a lei
e capisci quanto è valsa la pena tenerla per mano per una vita
A te che hai appena riconosciuto la donna della tua vita
A te che investi nell’intelligenza femminile
più che sul tempo pieno
A te che alleni il rispetto
più che l’istinto alla volgarità
A te che investi sulla tenerezza
più che sullo champagne
A te che non esiste una ricorrenza per le tue, di battaglie
A te che ti unisci alle sue, di battaglie
Oggi, proprio oggi
A te, proprio a Te
va il più immenso GRAZIE.

La Vita Indiretta

La vita indiretta è quella che accade mentre sei magistralmente impegnato a pensare ad altro.
La vita indiretta è quella che ti ricama, ti plasma, ti consolida in silenzio senza che te ne accorgi, e improvvisamente ti disfa, senza preavviso alcuno.
La vita indiretta è l’inaspettato, l’inatteso.
E’ la primavera dopo l’inverno, che se nasci in autunno non l’hai mica mai vista e non sai neppure che possa esistere. Pensi che il mondo in cui sei nato sia un inesorabile sempre-più-freddo e sempre-più-morto e avanti così all’infinito.
La vita indiretta è la borsa dell’acqua calda che mentre la stringi tra i piedi sotto le coperte si buca senza che te ne accorgi, e quando la sollevi zampilla come l’acqua dal putto di una fontana.
La vita indiretta è il personaggio di un romanzo, che quando lo inventi pensi di controllare tutto ciò che gli farai fare, e mentre lo scrivi fa tutto l’opposto ed è persino migliore.
La vita indiretta è quando sai tutto del tuo segno zodiacale, ma sono sempre la Luna, l’ascendente, i pianeti in quadratura, Lilith, il Medio Cielo e mille altre sfumature cosmiche a fare quella differenza che ti rende unico e che nessuno potrà mai raccontarti.
La vita indiretta è quella di oggi rispetto a come ti saresti immaginato se te l’avessero chiesto dieci anni fa.
La vita indiretta sono le persone che ti passano accanto per strada e ti guardano senza che te ne accorgi, è quello al semaforo fermo dietro di te che non ti suona anche se è scattato il verde, è quell’amico che non vedi da tanti anni ma che una notte ti sogna e tu non lo saprai mai. E’ tutto quello che sei stato e che sei all’interno del mondo degli altri.
La vita indiretta sono i luoghi dei viaggi che hai fatto, che se non ci andavi non era mica la stessa cosa e mentre eri lì ti sei immaginato come avresti potuto viverci, lavorarci, guadagnarti da vivere e hai continuato a fare il lavoro di sempre ma sapendo che nel mondo esiste un cielo più azzurro e stellato del tuo.
La vita indiretta è quella scelta banale, fatta con distacco e indifferenza, che ti cambia l’esistenza più di tutte le altre mille questioni su cui hai sudato, discusso, meditato.
E’ la prospettiva nuova che acquisisci del mondo ad ogni decennio in più che ti trovi sulle spalle, e che ti fa sentire contento dei tuoi decenni collezionati perché la prospettiva più recente ti sembra sempre migliore di quella prima e di quella prima ancora che avevi.
La vita indiretta è tutta quella roba che ti succede quando dormi, quando ti allontani, quando non ci pensi.
E che ti fa cambiare idea.

Scusa ma devo andare a tartufi

Immaginate una di quelle scene anni ‘20, ma perché no, anche anni 50 o 60. Sala da ballo, orchestrina, le ragazze con la gonna sotto il ginocchio. Dal racconto di come si sono conosciuti i miei nonni ho ricavato una discreta fantasia sulla scena, che comprendeva il classico ballo a palchetto, le ragazze da una parte ad attendere gli inviti, gli uomini dalla parte opposta a scambiarsi occhiate e commenti tenendo bel saldo nella mano destra un bicchiere di rosso. Qualcuno ha le bretelle, altri un cappello, una coppoletta. Uno po’ Grease, ma con la musica dei Liscio Simpatia. Si andava ai balli per svagarsi, per conoscere persone di altri paesi, ma soprattutto per essere invitate a ballare. A quei tempi immagino che la regola fosse: l’uomo cavaliere, e cacciatore, la donna damigella e preda. Apparentemente può sembrare un paradosso maschilista, eppure io in questo scenario colgo un grande potere in mano alla donna: quello di accettare o rifiutare l’invito.
La mia generazione è cresciuta respirando una discreta parità dei sessi, per cui non è mai comparso nessuno a lapidarci allorquando abbiamo osato fare il primo passo nel corteggiamento. La parità dei sessi in tal senso, però ha portato con sé anche la parità nei dispiaceri. Quelli del rifiuto. Del sentirsi dire “non posso” leggendoci un “non voglio” al neon fluorescente e intermittente lampeggiargli in fronte. Io per fortuna sono sempre stata piuttosto abile nel riconoscere i “non voglio”, senza temere la delusione cocente e abbagliante di quel neon spesso in totale antitesi con la scusa del momento.
Condivido con tenerezza un simpatico repertorio dall’adolescenza fino ai vent’anni delle mie collezioni di rifiuto.

SEI SIMPATICA MA PREFERISCO CHE RIMANIAMO AMICI.
Scenario. Seconda media. Quando tutti limonano, una tua compagna è già stata con due di terza, e tu non hai né le mestruazioni né il reggiseno e una cotta furibonda per il compagno più bello della tua classe e trascorri i pomeriggi ascoltando Max Pezzali che canta “vorrei dirti, vorrei, ti sento vivere” in un impeto di ormoni, romanticismo e fantasia tale che a te non te ne frega niente di limonare. Tu lo vuoi proprio sposare, portarlo a pranzo dai tuoi nonni a Natale e farci tre figli. Sguinzagli pertanto l’amico simpatico, uno dei tuoi migliori amici, quello che per te è solo simpatico mentre lui ti vede come la ragazza dei suoi sogni (ma questo lo avresti scoperto soltanto dopo). Gli appioppi l’ingrato, infelice compito di andare dal più bello della classe a chiedergli se “vuole mettersi con te”. Praticamente una missione suicida, per te e per il tuo migliore amico, una Pearl-Harbor annunciata, un po’ come andare da Putin a proporgli l’acquisto di una bombola del gas. In questo caso, io ero la bombola verde da 30 litri che voleva farsi notare da uno che potenzialmente possedeva un intero giacimento. Non so se la versione che mi è ritornata “ha detto che sei simpatica ma preferisce che rimaniate amici” sia stata una forma creativamente edulcorata dal mio amico di una risposta originale meno diplomatica e più dolorosa da sentirsi dire. Per avere 11 anni, è stata comunque una sconfitta dignitosa, avere come punto di forza la simpatia anziché le tette o gli occhi azzurri mi ha spianato la strada verso una brillante adolescenza di merda.

MAGARI SULLA TOUR EIFFEL CI SCAPPA IL BACIO.
E invece sulla Tour Eiffel ci sei salita, primo piano di ascensore, secondo, terzo, balconata, per poi ridiscendere a terra a bocca asciutta in tutti i sensi possibili e immaginabili. Tutti i compagni che fanno le foto di Parigi dall’alto di notte, pochi sanno che senza un rullino ISO400 stanno immortalando soltanto un buio puntinato di giallo sfuocato, qualcuno ti ruba la macchina fotografica e ti scatta un ricordo della gita di terza superiore, ma nonostante il tuo rullino ISO400 ti sarebbe venuta una faccia da fantasma formaggino, pallida, frastornata, nella notte più lunga della tua vita, quella in cui qualcuno a cui poche ore prima ti sei dichiarata dopo mesi di tormento interiore, approfittando di qualche giorno a classi riunite e mescolate, ti ha buttato lì per lì una mezza frase in cui “magari dopo lassù ci scappa il bacio”. Ci sono quelli di un anno più grandi, quelli dell’altra sezione, e lui è uno che è di due anni più grande ma è solo nell’altra sezione perché è stato bocciato due volte, e adesso da due ore ti chiama per nome e non più per cognome, scherza, fa il burlone, un po’ prendendoti in giro, un po’ facendoti credere qualcosa che poi, alla fine, non arriverà mai. Nessuna risposta ufficiale, perché “sono innamorata di te” non è una domanda ufficiale, è un’affermazione prepotente che si dovrebbe lanciare nell’aria e contemplarla mentre si mescola con l’idrogeno, l’ossigeno e l’azoto, e invece tu speri che dopo averla pronunciata si inietti nel cuore della persona che hai davanti e sperimenti in un baleno la differenza tra un legame semplice come quello tra due atomi e il legame complesso che avviene tra due persone, ma non sempre. Il mio non era un legame complesso. Soltanto un innamoramento complicato, che fa una rima splendida con “non ricambiato”.
Il mio premio di consolazione è stato il viaggio di ritorno in pullman Parigi-Torino seduti vicini, nel sedile uno accanto all’altro, e ho ancora delle foto di lui con il cappello da giullare che saluta nell’obiettivo, la stessa faccia da schiaffi di sempre con in aggiunta la consapevole spavalderia di sapersi amato, che non ha mai usato contro di me ma neppure mai con me.
Ho consumato le ultime foto del mio rullino da 36 vicino al mio giullare bugiardo con addosso il bruciore di quel bacio mancato, riconoscendone tuttavia il minor impatto ustionante rispetto a un eventuale bacio ricevuto senza sentimento. D’altronde, anche a 16 anni, in amore si gioca ma non si scherza.

SCUSA MA DEVO ANDARE A TARTUFI
Questa l’hai vinta a ventidue anni al concorso “terza uscita”, ovvero come risposta alla telefonata dove chiedevi di uscire insieme per la terza volta. Nella prima serata si è tirato tardi in birreria e l’alcool l’ha fatta da padrone, soprattutto per lui. Nella seconda riesci a ottenere un po’ più di atmosfera. E’ evidente che qualcosa dev’essere andato storto senza che tu ti sia accorta di nulla.
Dopo un po’, ti fai di nuovo avanti per estorcere una terza serata insieme, e ti senti rispondere che “sarebbe bello, ma ho promesso al mio amico che sarei andato a tartufi con lui, vado a letto presto perché partiamo alle quattro”. Ora. Io avrei avuto almeno un paio di alternative valide su come trascorrere una serata, la terza, una notte in bianco, su come arrivare alle quattro del mattino prima che ognuno prendesse e andasse per i propri tuberi. Ma ci sono momenti nella vita in cui insistere è inutile, e quando percepisci che sei stata barattata con un cesto di tartufi, il disallineamento cosmico è tale da far spazio soltanto a una dignitosa ritirata, pressochè immediata, un congedo a vita, una sparizione mentre il sipario si chiude tra gli applausi del pubblico facendogli pure l’inchino anche se sei l’attore che sul più bello ha sbagliato battuta.

E’ la dura legge del corteggiamento. Talvolta si vince, talaltra si perde, l’importante è non affondare mai.

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Paesaggio autunnale, ad alto tasso tartufifero (Ph Gabriella Contino)

La casa con la finestra sul cielo

Ci stiamo salutando davvero.
Ti lascio, tu lasci me, ci siamo date quello che sapevamo, ci siamo amate, respinte, abbiamo condiviso le nostre solitudini. Tu mostrandomi le ragnatele che avevo smesso di toglierti, io sognando di essere altrove.
Ci siamo sfogate a modo nostro, ma senza mai odiarci veramente.
Noi non sappiamo odiare. Sappiamo solo accogliere, sopportare come barche nella tempesta e a tratti sfogarci come fossimo noi, la tempesta. Tu sollevi polvere, io polveroni che finiscono in un nulla di fatto, nulla di veramente importante.
Dimentico in fretta, e anche tu, con la tua luce, la tua finestra aperta sul cielo dov’ero abbagliata di luce nelle notti di luna piena, sapevi bene come mitigare la mia frustrazione, come farmi dimenticare ciò che credevo mi mancasse: lo spazio, un balcone, qualche sfumatura di verde.
Non ti potevo chiedere ciò che non avresti mai potuto darmi. Tu sei nata mansarda, io tra le tue mura sono cresciuta.
Ti saluto così: con quell’omaggio scritto più di 4 anni fa come esercizio al corso di scrittura (esercizio che si intitolava “Dalla differenza all’incontro”), quando ancora non esistevano le Cronache di Burnia, eppure già scrivevo cronache di burnia. Di quel racconto hanno sorriso in tanti, mentre io di te ero semplicemente innamorata.

 

“Cosa mi sarà saltato in mente quella sera in cui ho accettato di venire a vedere l’abitazione di Silvia…
Okay, sto cercando casa da un po’, io e lei ci siamo riviste al compleanno di un’amica comune ed è saltato fuori che tra un mese lascerà la mansarda in cui si trova perché è riuscita a comprarsi un alloggio.
Una mansarda!
E dove, poi?
A Porta Palazzo.
Figuriamoci IO che vado ad abitare a PORTA PALAZZO.
Già mi vedo mentre passeggio con mia madre per il quartiere e le dico “Occhio mamma, fai attenzione a non pestare la siringa qui per terra…ci sono ancora certi maleducati al giorno d’oggi… Guarda, quello laggiù è il mio vicino di casa! No, non è il mio pusher (ma potrebbe diventarlo  presto!)”
Mi toccherà uscire la sera col burka se vorrò essere sicura di arrivare a destinazione.
Comunque.
Finora non sono riuscita a trovare nulla che fosse di mio gusto e compatibile col mio portafogli. Loculi di 15 mq con cucina e divano letto appiccicati, soffitte col tetto spiovente così ripido da indurti a camminare come il Gobbo di Notre Dame, appartamenti ammuffiti con canoni d’affitto da capogiro.
Non ci siamo.
Una casa deve farti innamorare al primo incontro e a me il colpo di fulmine non è ancora arrivato. Solo ribrezzo, incredulità e qualche conato di vomito. Non so se più per le case o per gli agenti immobiliari che per telefono me le hanno descritte come “favolosa”, “carinissima”, o “un’occasione imperdibile”. Avrei voluto prenderli a calci ogni volta e invitarli ad abitarci loro, lì dentro. Ma per tutti ho riservato la mia versione diplomatica salutandoli con un “ci penserò sicuramente, per adesso grazie mille!”.
Un vaffanculo col sorriso. Più o meno quello che avrebbero voluto fare loro con me quando alla domanda “Cosa sta cercando?” rispondevo “un alloggetto in prossimità del centro con un canone sui 350 euro”.
Pessima cliente.
Ma questi continuano a essere i miei tre requisiti inderogabili: ubicazione in prossimità del centro, canone massimo 350 euro, colpo di fulmine.
Impresa difficile ma non impossibile, e infatti la mansarda di Silvia soddisfa alla perfezione i primi due punti, anche se ghettizzarmi nel quartiere a maggioranza extracomunitaria per eccellenza di Torino non era esattamente ciò che avevo in mente.
L’Universo deve aver fatto confusione quella volta che ho espresso il mio desiderio di trovare un nido tutto per me. E’ stato durante il mio viaggio in Marocco, in mezzo al deserto, portavo un turbante arancione avvolto intorno alla testa per proteggermi dalla sabbia e mi facevo insegnare rudimenti di arabo dai carovanieri locali. Eppure sono sicura di aver formulato il desiderio in italiano!
Sul terzo punto, quello di farmi innamorare, lo vedrò di qui a poco.
Eccomi qua, parcheggiare ho parcheggiato. Speriamo di non trovare la macchina appoggiata su quattro mattoni al mio ritorno.
Il mio primo problema è stato trovare un abbigliamento adatto alla zona, per non urtare gli usi e costumi degli abitanti a maggioranza islamica o attirare su di me sguardi indiscreti a una certa ora della sera. E così, anche se siamo a luglio, mi sono vestita con jeans a vita alta, maglietta dolcevita nera, golf beige maniche lunghe, scarpe da ginnastica e zainetto. Lo stile che mio cognato definirebbe “da suora in gita” che spero possa salvaguardare, se non la mia dignità, almeno la mia incolumità.
Cammino a passi veloci rasentando i muri e guardandomi continuamente alle spalle per controllare che nessuno mi segua mentre raggiungo il portone principale, manco fossi a Kabul all’ora del coprifuoco.
Invece siamo in via Blablabla n. ics, a Torino, sono le nove di sera e giusto per farmi un’idea della zona, mi guardo intorno e noto una panetteria proprio di fronte ancora aperta, e poco più avanti una gelateria col dehor. Entrambi frequentati da persone “normali”. Ragazzi, ragazze, italiani e con indosso degli abiti consoni alla stagione estiva che chiacchierano tranquilli. Sono io che dovrei smetterla di comportarmi come se fossi un agente del controspionaggio, per di più vestito da suora in gita.
Suono il campanello, salgo quattro rampe di scale e arrivo all’ultimo piano.
Trovo Silvia sulla porta ad accogliermi con Zeno in braccio, il suo gatto.
Entro.
“Che bella!”. Estraggo dal cilindro queste due parole di circostanza che mi ero ripromessa di pronunciare all’ingresso, a prescindere dalla casa, foss’anche stata una merda.
“Vedrai che ti troverai benissimo qui” mi dice Silvia entusiasta, come se avessi già firmato il contratto d’affitto.
L’ambiente è piccolo ma accogliente, il pavimento in cotto e le travi a vista di legno conferiscono un romantico aspetto bohemien, oltretutto è molto più alta delle mansarde per nani che avevo visto finora!
“Qui c’è il bagno” mi dice aprendo l’unica porta presente all’interno, il resto è tutto “open space” (se così si può dire di 25 metri quadrati) con un soppalco da casa delle bambole.
Mi strappo di dosso la maschera della circospezione e finalmente osservo a pieni occhi, guardo, ammiro, annuso.
Ci sono cose sparse dappertutto, tipico di chi sta per lasciare un posto di lì a poco, eppure sono certa che, una volta sgombra, sembrerebbe più grande.
Senza neanche aver premuto “play”, nella mia testa è già partito il dvd: vedo le pareti tinteggiate con i miei colori preferiti, i miei libri sulle mensole, la torta salata che cuoce nel forno della cucina e io seduta al tavolo sotto la finestra che scrivo racconti con un gatto acciambellato sulle ginocchia.
“Posso salire?” chiedo indicando la ripida scala in legno che porta sul soppalco.
“E come no!”
Mi affaccio dall’abbaino del soppalco e scorgo la cupola del duomo, la Mole, la collina, le luci della città illuminata, i tetti delle altre case… Lo richiudo in preda all’emozione e ridiscendo, anche se perdo l’equilibrio sull’ultimo gradino e per poco non mi fracasso una caviglia.
“Non preoccuparti per la scala, ci farai l’abitudine” rimarca ancora una volta. Ma come fa a essere così sicura? Eppure non ho ancora detto niente, se non un “che bella” appena arrivata, che avrebbe benissimo potuto essere di circostanza, dato che ci conosciamo.
Mentre rimiro ogni angolo di quel piccolo nido sento il mio Essere Interiore fare la “ola”, e molto probabilmente anche i miei occhi mi tradiscono, anche se per il momento non voglio espormi troppo e lascio parlare la mia parte rompicoglioni.
“Peccato che in bagno non ci sia il bidet”, azzardo con tono preoccupato.
Silvia mi guarda comprensiva e anziché darmi fuoco con l’incenso mi risponde che è un dettaglio a cui ci si può facilmente adattare, e che comunque la doccia è bella grande.
Lascio cadere l’argomento, giusto per non sembrare fanatica dell’igiene intima, e mi focalizzo sulla cucina ad angolo. Frigo, forno, lavatrice… c’è tutto, non devo spendere un euro, dovrò soltanto procurarmi un buon aspirapolvere perché Zeno ha seminato peli dappertutto.
Clicco “rewind” sul mio dvd cerebrale e correggo la scena. Sulle mie ginocchia, mentre sono seduta e scrivo racconti, non vi è più alcun gatto. E mi dichiaro ufficialmente fanatica dell’igiene, in generale.
Con Silvia parliamo del più e del meno per quasi due ore, tempo sufficiente per aver respirato a fondo l’aria qui dentro.
“Lasciami il numero di telefono del tuo padrone di casa” le dico.
“Si chiama Guido, gli ho accennato che sarebbe passata un’amica a vedere la casa e sta già aspettando una tua chiamata”.
Eddai…ma cos’è, una cospirazione di veggenti?
Ci salutiamo affettuosamente, la porta si richiude alle mie spalle e io scendo le scale lentamente, come stordita. Sento incantevoli profumi speziati giungere da uno degli appartamenti. Forse da più d’uno.
Mi affaccio su un ballatoio che dà sul cortile interno. La quiete è tangibile, una calma densa, magica, vitale.
“Voglio vivere qui! Voglio vivere qui!”, si sgola la mia anima, tanto che temo possa svegliare qualcuno.
Ma lei comunica così. Con un’ondata silenziosa e inequivocabile di endorfine.
Arrivo in strada. Potrei essere dovunque, a Medina, Islamabad o Casablanca. Ora come ora non riesco a collocarmi in nessun luogo.
Faccio il giro dell’isolato e salgo in macchina, non c’è bisogno di controllare se ci siano ancora le ruote o meno. Ai miei stupidi pregiudizi ci penserò domani. Metto in moto e riparto, prendendo una direzione a caso. Faccio qualche respiro e piano piano realizzo.
“Mi trovo a Torino, in corso Regina Margherita e sto tornando a Chieri, dove momentaneamente abito”, mi dico ad alta voce, costringendomi a risvegliarmi dallo stato di trance in cui sono piombata dopo due ore trascorse nella mia futura casa. La freccia di Cupido ha centrato il bersaglio, e proprio quando meno me l’aspettavo.
La mia anima ha viaggiato, ed è più cosmopolita di quanto pensassi.
E’ ora di fare ritorno.
Adesso ho capito dove voglio andare”.

(Torino, giugno 2013)

 

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(“L’abbaino abbaia quando il buio abbaglia” – scritta trovata alla base del lucernaio, prontamente coperta con una pennellata di bianco e mai dimenticata).

 

Sbagliando (strada) si impara

C’è una cosa sulla quale inizio a provare un moto di insofferenza, ossia riempire di impegni il mio giorno libero, farcirlo come una sacher, piroettare a trottola da un capo all’altro del mio triangolo delle Bermuda (i cui vertici sono “cose da fare in casa – cose da fare in città – cose da fare a Buttigliera”) e arrivare a sera più stanca di quando torno dall’ufficio.
Da oggi si cambia, ho puntato la sveglia alla stessa ora di quando vado a lavoro, ma con la ferma intenzione di godermi la splendida giornata di sole (fonte 3b meteo) a un’altitudine non inferiore ai 1000 metri s.l.m.
A parte il fatto che quando si tratta del giorno libero, spegnere la sveglia e girarsi dall’altra parte è la cosa più ribelle che uno possa concedersi, il problema ulteriore è che parte dell’abbigliamento idoneo per la suddetta altitudine è nel cesto delle cose da lavare, perché in montagna ci sono già stata domenica. Non avendo grande possibilità di scelta, estraggo ciò che mi serve e lo reindosso.
Salto in sella al mio poderoso destriero bianco, con un’ora e mezza di ritardo rispetto al previsto, gli dò due pacche sul cofano, due speronate ai pedali e via. Al galoppo verso la Val Sangone.
Obiettivo: Punta dell’Aquila.
Conoscendo l’itinerario e il dislivello, difficile che oggi arrivi proprio in cima. Potrebbe trasformarsi in una mezz’ala di Aquila, un petto di Aquila, un giro-coscia di pulcino di Aquila, insomma, l’importante è ciaspolare. Non prima di aver preso un caffè a Giaveno, nel bar dove mi ero già fermata in un’altra occasione e se me lo ricordo ancora ci sarà un perché.
Prima di arrivare a Giaveno sbaglio un paio di rotonde, devo tornare indietro, eppure questa strada pensavo di saperla. Mah.
Quello che certamente non ricordavo era che il centro di Giaveno che gravita intorno alla piazzetta dove ho già riconosciuto il suddetto bar sia peggio di un crocevia del Cairo. Gente dappertutto, gente che attraversa la strada senza guardare, macchine una sopra l’altra, e neanche un parcheggio libero. Dopo un paio di tentativi onesti andati a vuoto, mi infilo in uno spazietto che fa al caso mio: in divieto di sosta. Ma pur sempre davanti al bar. Al mio ingresso, la situazione è ancora peggio che fuori, per poter fare uno scontrino devo abbattere due ultrasessantenni che ostruiscono il passaggio l’una con la sua pelliccia, l’altra con il suo cappellino modello gazebo. Alla cassa, sento la signorina ossequiare le clienti con “ecco il suo resto Signora Matilde” e “ due caffè per Madama Amparore”. Mi manca solo di vedere Gianduia e Luigi quattordicesimo e il viaggio nel tempo e nello spazio è bello servito.
Per fortuna il barista tatuato mi riporta alla mia realtà, e mi serve un caffè alla velocità del fulmine così posso tornare in fretta al mio destriero, prima che i briganti me lo portino via con rimozione forzata.
Mi allontano dal carnevale di Rio de Giaveno, ancora un po’ provata.
Sarà per quello, sarà la fretta, l’emozione, Saturno in Capricorno, fattostà che oltrepasso il bivio a sinistra per Aquila-Pontedipietra SENZA VEDERLO, e me ne accorgo solamente quando, dopo aver imboccato un altro bivio a sinistra e aver guidato in salita per un po’ di km, arrivo alla fine della strada e non sono dove avrei dovuto essere.
Ma porca loca.
Loca-loca-l’oca. Ho sbagliato completamente pennuto. E adesso?
Mi guardo intorno, mi avvicino a un signore che sta leggendo seduto su un masso, il quale però non sa darmi nessuna informazione. Sta sfogliando Tuttocittà… mi sa che si è perso anche lui ma molto tempo prima di me. Ne arriva un altro a bordo di una Panda Bianca, occhiali da sole, giubbotto tecnico, questo lo fermo perché mi sembra già più affidabile.
Infatti scende e mi dice tutto ciò che in parte già sapevo: ho sbagliato bivio, per andare all’Aquila dovrei tornare indietro, risalire dall’altra parte, ma è già abbastanza tardi, ti sembra questa l’ora di iniziare a camminare (questo non lo dice ma secondo me lo pensa), conviene rimanere qui e partire da quel bel sentiero laggiù che lui mi consiglia vivamente. Da come me lo descrive…mi piace!
Da un imprevisto, nasce una nuova possibilità. Grandissima metafora sulla vita, che occupa i miei pensieri per un po’, fino a quando non inizio a pensare che con i vestiti usati che mi ritrovo addosso, puzzo tantissimo. Il sudore si sta stratificando tone sur tone e lascia una scia persistente sul sentiero, come quelle chimiche degli aerei. Se mi dovessi perdere, basterebbe che Luca desse un mio calzino, rimasto a stagionare nella stessa cesta delle cose che indosso, ai cani da salvataggio, e troverebbero la mia traccia senza difficoltà. Ma basterebbe anche un cane da tartufi, più o meno l’odore è quello, o un qualunque cane dotato di naso. Probabilmente la scia olfattiva che lascio è anche visibile a occhio nudo, e mi impedirà di perdermi in ogni caso.
Il panorama è imponente, c’è un cielo che mi viene addosso talmente è blu, mi fermo un momento per fare una foto. Vengo colta in flagrante in questo momento “giapponese” da una tipa che arriva alle mie spalle correndo in grande stile. Subito dietro, un cane minuscolo che la segue correndo pure lui con le sue 4 zampette che graffiano la neve ghiacciata. Lei mi saluta e mi supera, il cane rallenta un pochino… e mi guarda… poi riprende più veloce di prima, stando nuovamente al passo della sua padrona. Io e lui sappiamo perché.
Mentre proseguo la salita, incrocio qualcuno che invece sta già scendendo. La montagna è un luogo dove la socialità con gli estranei è prassi consolidata e io, trovandomi su un sentiero non conosciuto, approfitto di questa bella abitudine e fermo una seconda persona chiedendogli informazioni su “cosa c’è dopo”. Anche lui elogia il luogo, mi parla del Rifugio Fontana Mura come un posto incantevole dove arrivare da qui, ma che oggi per me rimarrà un Eldorado, dato che manca ancora un bel pezzo ed è mezzogiorno e mezza passato.
Opto per salire ancora di un ultimo tratto ripido, innevato, assolato, c’è un cartello che indica un alpeggio a 20 minuti, il Sellery Inferiore, voglio arrivare almeno fino lì, e voglio farlo in volata.
Ingrano la marcia agonistica e vado. Ansimo come Rambo, anzi, come in un parto gemellare nella fase finale dell’espulsione. Del secondo.
All’ultima curva, intravedo il tetto dell’alpeggio poi l’alpeggio, e poi un anziano signore seduto sulla staccionata intento a finire suo pranzo, che mi guarda incerto. Mi sento come lo svizzero della pubblicità, che è arrivato in cima alla montagna e ci ha trovato l’italiano arrivato prima di lui che offre un pezzo di cioccolato come premio di consolazione.
Neanche avevo finito di vergognarmi per le mie doglie in diretta audio, che già lui mi fa il cazziatone dicendomi che per salire qui bastavano i ramponi, che pesano meno delle ciaspole. Vagli a dire che non sono stanca ma stavo solo giocando a fare Stefania Belmondo nella finale di Salt Lake City, e che sarei arrivata all’alpeggio like a winner, battendomi il petto e guardando il cielo, se non ci fosse stato lui.
Ometto di dirgli che non so nemmeno dove mi trovo per non farlo alterare ulteriormente. Mi siedo vicino a lui, mangiamo e chiacchieriamo, mi spiega che Fontana Mura si chiama così perché c’è la sorgente del Sangone. Fiume nel quale mi immergerò questa estate per purificarmi dall’ignoranza che ancora ho sull’omonima Valle.
Questo rifugio è la mia seconda meta mancata di oggi, ripenso scendendo. Ma faccio ritorno all’auto decisamente contenta: ringrazio Cinquita per avermi condotta sulle sue ruote in questo bel posto. Io continuavo a sbagliare strada e non sapevo perché, lei secondo me sì.
Adesso ho almeno due motivi in più per continuare a fare quello che mi piace nel mio giorno libero. E si chiamano Punta dell’Aquila e Rifugio Fontana Mura.
Devo solo rivedere un attimo l’equipaggiamento, perché alcune cose ancora mi mancano.
I ramponi.
Una mappa.
E un cane.