La dieta d’u kazz

Facciamo il punto della situazione.
Arretro la memoria nel tempo e trovo un inverno dove il carboidrato l’ha fatta da padrone, per non dire da pappone, sul mio regime alimentare prostituitosi miseramente in cambio di solide calorie che saziassero la mia fame fisica, spirituale e affettiva.
Con la primavera è tornata in auge la stagione dell’amore, e con la leggerezza che la contraddistingue mi sono lasciata andare a ripetuti acquisti di patatine post-lavoro. Mangiare in macchina durante il viaggio di ritorno non si può propriamente considerare un after-hour, ma parecchie volte è stato un’apericena, se consideriamo che nell’area marketing delle industrie alimentari lavorano dei manigoldi spietati che mettono in commercio confezioni di porcherie da 150 grammi cadauna. Lavandosi impunemente la coscienza con una scritta in etichetta che “questa confezione contiene circa 8 porzioni”, quando anche gli ipertesi sanno che aprire un sacchetto di patatine equivale a recidere un’arteria femorale, è impossibile arrestare l’emorragia. A riprova di ciò, basti considerare che NON esistono in commercio confezioni di patatine richiudibili. Le gallette hanno il chiusino, il pan carrè ha il chiusino, la pasta e il riso hanno l’adesivo.
La patatine NIENTE. E “loro” lo sanno benissimo, per questo considero le confezioni di patatine da 150 grammi un crimine contro l’umana forza di volontà.
Io non resisto a non comprarle, figuriamoci a non mangiarle.
Ce la smenano tanto con la questione su droghe leggere e droghe pesanti, quando esistono in giro sostanze potenzialmente letali capaci di dare una dipendenza istantanea, oltre che una devozione totale al marchio di fabbrica.
E’ peggio delle sigarette. Le patatine dovrebbero avere il Monopolio di Stato e il loro consumo andrebbe regolamentato e contingentato.
Dovrebbero mettere sulle confezioni immagini shock per scoraggiare l’acquisto. Io per esempio rischio la morte in autostrada perché mangiandole mentre sono alla guida, mi ritrovo poi nella delicata situazione di dover estrarre un fazzoletto di carta dalla borsa appoggiata sul sedile per pulirmi le mani.  Senza imbrattare di olio la borsa e quello che ci sta dentro, senza arrestare la corsa dell’auto e il tutto possibilmente prima di entrare in città quando mi vedrò costretta a usare il cambio, le frecce, quelle robe lì. In autostrada no, il problema non si pone più di tanto: mi sbatto in terza corsia, quella dei tir, dei pensionati e dei neopatentati, e vado dritto per venti minuti, compiendo quei leggeri assestamenti di carreggiata con il ginocchio sinistro che non ha nulla da fare.
Per la ricerca del pacchetto di fazzoletti,  mi vengono entrambe le mani palmate come le zampe delle oche, la destra che cerca nella borsa evitando il contatto con i polpastrelli unti, la sinistra che si fa palmata anch’essa per un misterioso riflesso incondizionato. Difficilmente trovo i fazzoletti al primo colpo, solitamente si rende necessaria una seconda manovra di trivellazione della mia borsa (che per l’occasione si è trasformata nel pozzo di San Patrizio), manovra compiuta questa volta con le dita chiuse a pugno ma non troppo, con le nocche delle falangi che in questa fase diventano l’organo di senso più sviluppato in assoluto.
Sensibili come un capezzolo, le falangi  individuano l’obiettivo, e con la stessa abilità con cui potrei mangiare del riso bendata tenendo due bacchette cinesi nella mano sinistra, estraggo il trofeo dalla borsa e mi posso finalmente igienizzare i polpastrelli e tornare a guidare nei modi che mi hanno insegnato a scuola guida.
Se dovesse mai succedermi qualcosa mentre mangio patatine al volante, sono pronta a fare da testimonial per una campagna di immagini shock sui sacchetti, così la smettiamo con questa ipocrisia verso i fumatori. Anche se non credo ce ne sarà mai bisogno, con tutte le telecamere piazzate sulla Torino-Milano, quasi sicuro mi arrestano prima.
Fatta questa breve (…eh?) ma intensa e glutammata premessa sul mio consumo abituale di patatine, vorrei confessare apertamente gli altri miei peccati di gola che hanno contribuito a bollare il mio regime alimentare degli ultimi 3-4 mesi come “la dieta d’u kazz”. Ovvero casualità ingerite senza il minimo criterio di digeribilità, valore nutritivo, calorie.
Su orari e pesi non sono attendibile, mi limito a elencarvi i contenuti e i precetti principali.
Cioccolato fondente mangiato come se fosse Pasqua.
Cornetti e croissant come se fossi in Francia.
Attività fisica pari a zero come se fossi magra, oppure come se lo rimanessi per sempre a prescindere.
Proteine animali come se non esistessero gli ormoni.
Caffeina come se non esistesse l’insonnia.
Miele e zuccheri come se avessi la tosse.
Mummie tumulate in freezer secoli addietro (carne non rossa ma nemmeno più bianca) e riesumate come fossi un becchino. O un archeologo. O un becchino archeologo.
Tonno in scatola come se ignorassi il mercurio, salvo trovarmelo poi simpaticamente aggrappato al fegato in uno di quei legami morbosi che vai a spiegarglielo, dopo.
E poi, una su tutte, Lei.
La regina delle mie tartine prima di cena, la mia Nutella salata, quella che nemmeno le patatine potranno mai separarci perché loro sono uno sbandamento passeggero, lei invece è una presenza consolidata nel frigorifero. Sempre. La mia devozione per lei è totale, dovrei essere segnalata alla Unilever come cliente sostenitore, meriterebbe un post dedicato, e lo farò.
La Maionese Calvè.
A degna conclusione dell’elenco (comunque non esaustivo) dei contenuti principali della mia dieta d’u kazz.
Mi salvo soltanto perché non ho una bilancia in casa e non so quantificare il danno in termini di chili, posso però constatarlo in termini di pantaloni primaverili-estivi che ho indossato per anni abitualmente e che al momento non superano le prova “chiusura del bottone”, a malapena han superato la circonferenza del culo senza aprirsi in due come le quaglie del girarrosto.
Esiste però un impercettibile vantaggio all’orizzonte, una preparazione che torna utile, un’inequivocabile dilatazione di stomaco che mi porterà il giorno di pasquetta al superamento in scioltezza dell’esame più faticoso, quello dove non si guarda in faccia a nessun grasso saturo.
La PROVA COSTINE.

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